Proponiamo
la nuova riflessione dell'amico S.T., che ragiona sui problemi e sul senso della tradizione del
Panevin.
“La
vita è memoria”, secondo Isaac Singer. I ricordi che associo alla
parola “Panevin” sono relativamente recenti; datano ai primi anni
70, anni di domeniche in bicicletta ed “austerity”; al ritmo del
bicilindrico FIAT mio padre ritornava al “borgo natio” per un
inatteso supplemento di gioventù.
Si riunivano gli amici di un
tempo, oramai tutti mariti in temporanea libera uscita dalle giovani
consorti. Il mio ruolo era propedeutico alla riuscita dell’opera:
promosso a staffetta trascinavo a due mani un pesante bottiglione di
vino che finiva sempre troppo spesso. Il pomeriggio del 5 Gennaio se
ne andava furtivo, nella luce viola del tramonto. Ripartivano,
scarichi, i rimorchi con i loro trattori la cui modesta velocità era
garanzia d’incolumità per il pilota. In fondo si poteva anche
finirla lì: la festa si era consumata nell’attesa, come ebbi a
scoprire in seguito. Il “sabato del villaggio” avrebbe visto il
suo epilogo dopo poche ore, tra l’ufficialità delle mogli e gli
assaggi incrociati della pinza quando già “tristezza e noia”
recavano le ore. Qualcuno intonava il canto tradizionale, qualcuno
traeva auspici; doverosa routine. La stanchezza già faceva
assaporare l’imminente riposo del giusto e il gruppo si dissolveva.
Circa
dieci anni dopo venne il mio turno; le vacanze scolastiche sbiadivano
nel languore del nuovo anno; restavano – inamovibili - gli ultimi
compiti per casa, tenaci sopravvissuti ai rimandi avventizi. Gennaio
regalava qualche giorno soleggiato, foriero di una primavera ancora
lontana ma già percepibile. Si partiva sulle due ruote,
rigorosamente monomarca, alla ricerca dell’albero da sacrificare.
Un pomeriggio di lavoro e sapide battute per assemblare una pila
sghemba di ramaglie, modesta fin che si vuole ma comunque “nostra”.
Si ripeteva il rito conclusivo serale in compagnia dei genitori
oramai appesantiti dagli anni ed era già un modo per ricordare un
fugace pomeriggio.
Qualcuno
racconta che la deriva iniziò a causa dell’interessamento della
Rai la quale volle documentare quel rito atavico e pagano poco noto
tra gli stessi veneti d’oltrepiave. Il Comune, saldo feudo
scudocrociato, allestì in fretta un Panevin “istituzionale” per
non mancare una passerella che desse lustro a sì illuminata
Amministrazione. La pinza fu acquistata dai forni della zona, per la
gioia di panettieri e cittadini. Negli anni assistemmo poi ad una
evoluzione che rasenta la perfezione per aggiunte cumulative: dai
filari di viti si finì sulle acque del Monticano, dal buio della
campagna alle lampade al sodio, dalla fangosa terraferma alla zattera
metallica, l’accensione dei sub, la Banda Cittadina, i fuochi
artificiali. Nemmeno la data è sfuggita al revisionismo modernista:
dalla sera dell’Epifania alla domenica successiva, all’ottavario
sfiorando perfino il 15 del mese, senza rispetto alcuno per una
tradizione oramai ampiamente oltraggiata. Attendiamo con trepidazione
l’apertura con majorette, coro gospel, gli sbandieratori della dama
castellana e chiusura con ballerine del Carnevale di Rio, in
un’apoteosi di ottuso provincialismo che Felice Caccamo definirebbe
“frittura globale totale”.
Da
cerimonia, intima e corale, di borgata contadina, occasione per
rinsaldare i mutui legami di vicinato ad asettica parata di paese a
cui gentildonne impellicciate assistono annoiate, attente a che la
fuliggine non intacchi la messa in piega fresca di tinta; nessun
canto, pinza da forno industriale e fuochi d’artificio; sullo
sfondo ambulanza e vigili del Fuoco. Tutto ammodo, perfettamente
organizzato. Tutto previsto, nel pieno rispetto delle norme e della
sicurezza dei cittadini. Cibo di serie, auto di marca per una massa
informe, disgregata e senza identità mentre le luci di un Luna Park
fuori tempo massimo lampeggiano sincrone a sorrisi di regime,
automatici e falsi.
Per
quella sparuta minoranza che ritiene fragile una democrazia impaurita
dal ritorno di un sovrano sbiadito, per quelli che aspettano il
giorno in cui il Presidente di un grande Paese sarà così audace da
togliere l’embargo ad una piccola isola caraibica ridotta alla
fame, per noi visionari che sogniamo un Sindaco, incurante del
consenso immediato, tanto coraggioso da abolire quel rito svilito e
garrulo che le locandine si ostinano a chiamare impropriamente
Panevin invitiamo i cittadini a ricucire i legami con i parenti
rimasti nelle case coloniche delle frazioni e ritrovare l’essenza
vera di un rito frugale ed autentico. Nel frattempo ci mettano i nani
e le ballerine, la Fanfara dei Bersaglieri, la sfilata in costume
romano, la corsa delle bighe, la gara di torte, il torneo di
briscola, il lancio dei paracadutisti e la pesca di beneficienza (per
tutta la durata funzionerà un ricco stand enogastronomico). Facciano
pure, perpetuino questa patetica farsa ma almeno abbiano la decenza –
non diciamo né il coraggio né la fantasia – di scovare un nome
diverso per quella pira orfana, liberamente tratta da un rito
propiziatorio che chiamavamo Panevin.
Nessun commento:
Posta un commento