mercoledì 16 novembre 2011

CAMBIARE DISCORSO

(ab) Il lavoro da fare è appena cominciato. Il fatto che il paese non sia più governato da Berlusconi non risolve ancora proprio niente. Diciamo che, forse, adesso si può appunto cominciare a darsi da fare: un lavoro faticoso, ingrato e dall’esito molto incerto. Credo che l’eredità peggiore che ci rimane di questo lungo periodo sia la profonda divisione tra gli italiani, una spaccatura che certamente non sarà superata domani. Ci vorrà tempo e impegno e questo è uno dei compiti fondamentali che toccherà a ciascuno di noi affrontare.
Ma la cosa che mi lascia almeno un po’ di speranza, uno spiraglio di ottimismo, è il fatto che tante volte in questi anni ho parlato di qualche problema (cose di scuola, per esempio) con gente di cui sapevo che non votava come me, e mi sono reso conto che la distanza sul da farsi non era poi così grande, che se avessimo dovuto discutere sul merito delle questioni avremmo potuto essere d’accordo su diversi punti: bastava lasciare da parte lui e la sua pretesa di essere al centro del mondo e dell’attenzione di tutti noi. Invece, appena si sfiorava il confronto tra i rispettivi giudizi su Berlusconi, la tensione saliva e non era più possibile parlare: incrinata la fiducia, emergevano rammarico e una punta di sospetto..

Adesso che, almeno per un po’ (lo dico per non illudermi), non ce l’avremo più sempre davanti, dovrebbe risultare un po’ più facile trovare su diversi problemi qualche soluzione comune, qualche scelta che una buona parte di noi, una maggioranza significativa, che comprenda molti sia degli uni che degli altri, trovi accettabile. E se puntiamo su questo forse riusciremo a farlo rimanere ai margini della nostra vita e a parlare delle infinite cose serie su cui dobbiamo mettere le mani per tirare in qua questo paese un po’ sventurato e un po’sciagurato. E’ chiaro che per anni ci saranno ancora in circolazione suoi ammiratori, nostalgici e innamorati, e che ne sentiremo celebrare le opere e rimpiangere le virtù. Ma se, quando la sua ombra si profila, riusciremo a cambiare discorso per portarlo su questioni presenti, lasciando che poi sul resto la storia faccia un po’ il suo corso, che i documenti parlino, che il nostro tempo e la nostra cultura maturino un giudizio articolato e complessivo (sul cui tenore io in realtà non ho grossissimi dubbi), allora forse questi fan rimarranno pochi, marginali e relativamente innocui. E potremo essere un paese in cui si va d’accordo quasi tutti su una decina di principi fondamentali per poi dividersi e proporre cose diverse sul resto.
Un paese civile, che trovi (ritrovi) il suo posto nella storia dell’Europa, capace di riconquistare per la propria opinione pubblica un equilibrio come quello di cui parla Ferdinando Camon nel suo fondo sulla “Tribuna” di oggi 16/11/11. Parla di un nuovo uomo ma i tratti che disegna non hanno niente di utopico e vanamente idealistico: sono semplicemente i lineamenti di una persona civile, come è normale incontrarne in tanti paesi del mondo, come ne esistono già tante anche da noi, grazie a Dio. Eccolo qui:

"Il dramma che l'ha portato al pote­re e dal potere l'ha precipitato non è un dramma storico ma an­tropologico: per spiegarlo non occorre analizzare la storia, ma l'uomo. Gli anni che segnano l'era berlusconiana sono stati an­ni in cui non un partito, non un governo, non un programma, non un'idea o un ideale hanno dominato la storia, ma un uomo: anni di ipnosi. L'uomo ha ipno­tizzato un popolo con la parola e l'immagine, con la comunicazio­ne. Non usa la parola scritta. Usa la parola parlata, è uomo dall'eloquio seducente, e usa l'immagine, la propria immagi­ne e quella di quelli che lavorano con lui. E specialmente "quelle" che lavorano per lui. Per uscire dall'epoca berlusconiana noi dobbiamo entrare in un' epoca in cui il leader non ci seduca perché è ricco, ma perché è saggio. Non sia piacevole perché racconta barzellette, su di sé, su di noi, su Dio, sul sesso, sugli ebrei, ma per­ché ci fornisce programmi. Non un leader che nei convegni mon­diali fa ridere, rendendoci ridico­li, ma che si guadagni la stima, meritandoci il rispetto. Siamo di­ventati un popolo minore, men­tre siamo più grandi di quanto il mondo ci consideri. Dobbiamo avere un parlamento scelto da noi, uomo per uomo, non scelto da lui, uomo per uomo. Il Parla­mento dev'essere la collettività delle nostre famiglie che diventa­no Stato, non la sua azienda che diventa Stato. Dobbiamo avere deputate e senatrici capaci, non carine. Se sono anche carine tan­to meglio, ma la loro bellezza non è, come ci è stata presentata finora, garanzia sufficiente, le donne sono come noi, belle o brutte, intelligenti o vuote: una donna bella ma vuota resta vuo­ta. La scelta delle parlamentari in base all'avvenenza ha introdotto nelle case la convinzione che le nostre figlie belle non devono an­dare verso lo studio e la vita, per­ché è la vita che va verso di loro: era il messaggio berlusconiano, ed era falso. La vita non va verso nessuno. Siamo noi che dobbia­mo andare verso la vita, verso il mondo. Ciò che vogliamo, dob­biamo meritarcelo. Il passaggio che stiamo vivendo dev'essere un passaggio antropologico: noi non dobbiamo creare un partito nuovo, una coalizione nuova, ma un nuovo uomo. Il leader che è caduto non rispettava le istitu­zioni e i valori: s'è servito della chiesa, spacciandosi per cattoli­co, favorendola con le leggi ma disonorandola con i comporta­menti, ha irriso alla giustizia, cre­ando uno scontro tra politica e giustizia, e sostenendo che la giu­stizia si metteva contro la politi­ca. Il risultato è che non la mag­gioranza del popolo, ma una buona parte non ha più fiducia nella giustizia, e uno Stato in cui la giustizia non è creduta è mor­to. Il popolo ha perso il senso del­lo Stato e della giustizia, che è co­me dire le ragioni per stare insie­me. Dobbiamo ritrovare quelle ragioni. Finora vedevamo in mol­te norme che i parlamentari della maggioranza firmavano, un inte­resse di tutti loro o del loro capo, e questo ha fatto sì che in tutto quello che facciamo anche noi (nel campo delle tasse, l'evasio­ne, l'esportazione di capitali, i bi­lanci, gli appalti) ci sentissimo a posto se cercavamo il nostro inte­resse, perché l'azienda e la fami­glia stanno sopra lo Stato. Portar­ci fuori da questo sistema e den­tro un altro sistema è il compito del nuovo leader. Può farcela un tecnico dell' economia? La mia ri­sposta è: no. Un colto e raffinato burocrate dell'economia può sol­tanto risanare i conti. Ma il nuo­vo uomo non può nascere che dai conti risanati. Il nuovo leader non ci porterà nella nuova gior­nata. Basta che ci porti fuori dalla notte". (Fernando Camon - la Tribuna - 16 novembre 2011)

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