domenica 26 gennaio 2014

Il falò della banalità

di S.T.

Proponiamo la nuova riflessione dell'amico S.T., che ragiona sui problemi e sul senso della tradizione del Panevin.

La vita è memoria”, secondo Isaac Singer. I ricordi che associo alla parola “Panevin” sono relativamente recenti; datano ai primi anni 70, anni di domeniche in bicicletta ed “austerity”; al ritmo del bicilindrico FIAT mio padre ritornava al “borgo natio” per un inatteso supplemento di gioventù.
Si riunivano gli amici di un tempo, oramai tutti mariti in temporanea libera uscita dalle giovani consorti. Il mio ruolo era propedeutico alla riuscita dell’opera: promosso a staffetta trascinavo a due mani un pesante bottiglione di vino che finiva sempre troppo spesso. Il pomeriggio del 5 Gennaio se ne andava furtivo, nella luce viola del tramonto. Ripartivano, scarichi, i rimorchi con i loro trattori la cui modesta velocità era garanzia d’incolumità per il pilota. In fondo si poteva anche finirla lì: la festa si era consumata nell’attesa, come ebbi a scoprire in seguito. Il “sabato del villaggio” avrebbe visto il suo epilogo dopo poche ore, tra l’ufficialità delle mogli e gli assaggi incrociati della pinza quando già “tristezza e noia” recavano le ore. Qualcuno intonava il canto tradizionale, qualcuno traeva auspici; doverosa routine. La stanchezza già faceva assaporare l’imminente riposo del giusto e il gruppo si dissolveva.
Circa dieci anni dopo venne il mio turno; le vacanze scolastiche sbiadivano nel languore del nuovo anno; restavano – inamovibili - gli ultimi compiti per casa, tenaci sopravvissuti ai rimandi avventizi. Gennaio regalava qualche giorno soleggiato, foriero di una primavera ancora lontana ma già percepibile. Si partiva sulle due ruote, rigorosamente monomarca, alla ricerca dell’albero da sacrificare. Un pomeriggio di lavoro e sapide battute per assemblare una pila sghemba di ramaglie, modesta fin che si vuole ma comunque “nostra”. Si ripeteva il rito conclusivo serale in compagnia dei genitori oramai appesantiti dagli anni ed era già un modo per ricordare un fugace pomeriggio.
Qualcuno racconta che la deriva iniziò a causa dell’interessamento della Rai la quale volle documentare quel rito atavico e pagano poco noto tra gli stessi veneti d’oltrepiave. Il Comune, saldo feudo scudocrociato, allestì in fretta un Panevin “istituzionale” per non mancare una passerella che desse lustro a sì illuminata Amministrazione. La pinza fu acquistata dai forni della zona, per la gioia di panettieri e cittadini. Negli anni assistemmo poi ad una evoluzione che rasenta la perfezione per aggiunte cumulative: dai filari di viti si finì sulle acque del Monticano, dal buio della campagna alle lampade al sodio, dalla fangosa terraferma alla zattera metallica, l’accensione dei sub, la Banda Cittadina, i fuochi artificiali. Nemmeno la data è sfuggita al revisionismo modernista: dalla sera dell’Epifania alla domenica successiva, all’ottavario sfiorando perfino il 15 del mese, senza rispetto alcuno per una tradizione oramai ampiamente oltraggiata. Attendiamo con trepidazione l’apertura con majorette, coro gospel, gli sbandieratori della dama castellana e chiusura con ballerine del Carnevale di Rio, in un’apoteosi di ottuso provincialismo che Felice Caccamo definirebbe “frittura globale totale”.
Da cerimonia, intima e corale, di borgata contadina, occasione per rinsaldare i mutui legami di vicinato ad asettica parata di paese a cui gentildonne impellicciate assistono annoiate, attente a che la fuliggine non intacchi la messa in piega fresca di tinta; nessun canto, pinza da forno industriale e fuochi d’artificio; sullo sfondo ambulanza e vigili del Fuoco. Tutto ammodo, perfettamente organizzato. Tutto previsto, nel pieno rispetto delle norme e della sicurezza dei cittadini. Cibo di serie, auto di marca per una massa informe, disgregata e senza identità mentre le luci di un Luna Park fuori tempo massimo lampeggiano sincrone a sorrisi di regime, automatici e falsi.
Per quella sparuta minoranza che ritiene fragile una democrazia impaurita dal ritorno di un sovrano sbiadito, per quelli che aspettano il giorno in cui il Presidente di un grande Paese sarà così audace da togliere l’embargo ad una piccola isola caraibica ridotta alla fame, per noi visionari che sogniamo un Sindaco, incurante del consenso immediato, tanto coraggioso da abolire quel rito svilito e garrulo che le locandine si ostinano a chiamare impropriamente Panevin invitiamo i cittadini a ricucire i legami con i parenti rimasti nelle case coloniche delle frazioni e ritrovare l’essenza vera di un rito frugale ed autentico. Nel frattempo ci mettano i nani e le ballerine, la Fanfara dei Bersaglieri, la sfilata in costume romano, la corsa delle bighe, la gara di torte, il torneo di briscola, il lancio dei paracadutisti e la pesca di beneficienza (per tutta la durata funzionerà un ricco stand enogastronomico). Facciano pure, perpetuino questa patetica farsa ma almeno abbiano la decenza – non diciamo né il coraggio né la fantasia – di scovare un nome diverso per quella pira orfana, liberamente tratta da un rito propiziatorio che chiamavamo Panevin.

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