di
Alessandro Campigotto
(Riportiamo
anche sulle pagine del blog un articolo pubblicato sul nostro foglio,
distribuito all'inizio di dicembre)
Gli
impianti a biogas funzionano introducendo in un digestore delle masse
organiche che, deteriorate dai batteri, producono metano. Il gas
viene immesso in un circuito e produce calore ed energia elettrica.
Le masse organiche possono essere scarti di prodotti agricoli
(letame, liquame...) o colture vegetali come il mais e il sorgo.
Quindi, se un'azienda agricola utilizza materiali provenienti dalla
propria normale produzione per rendersi autonoma dal punto di vista
energetico, compie una scelta che può ancora risultare sostenibile.
Ma il punto è che, in termini di energia elettrica prodotta, la resa
del trinciato di mais è circa sette volte quella del letame: quindi,
per chi costruisce l'impianto a biogas, ricorrere al mais significa
recuperare molto più rapidamente l’investimento iniziale.
Tuttavia, per produrre un megawatt di elettricità ci vogliono circa
400 ettari di mais che sono così sottratti all’alimentazione umana
e animale.
Così
la nobile causa delle energie rinnovabili può nascondere
speculazioni sul territorio agricolo da parte di soggetti che nulla
hanno a che fare con l’agricoltura. Si dà il caso di società
finanziarie che si appoggiano ad agricoltori per costruire impianti a
biogas in zona agricola, percependo incentivi (che tutti noi paghiamo
in bolletta!) che permettono loro di prendere in affitto terreni
(anche marginali) a prezzi raddoppiati se non triplicati rispetto a
quelli in uso nelle varie zone, sottraendoli alla coltivazione e
all'allevamento. Si tratta di una concorrenza che può ben essere
considerata sleale, a cui in particolare non possono reggere gli
allevamenti di bovini da latte, che percepiscono un prezzo al litro
che si aggira intorno ai 37 centesimi di euro (il prezzo di 20 anni
fa!) e che potrebbero essere costretti a chiudere, col pericolo non
solo di perdere la possibilità di avere prodotti locali genuini, ma
anche di veder scomparire la cultura secolare dell’allevamento.
È
vero che il “conto energia” del luglio 2012 ha messo nuovi
paletti, riconoscendo incentivi diversi per gli impianti che
utilizzano veramente reflui zootecnici e scarti di altra natura, ma
ormai è tardi: molte speculazioni sugli impianti a biogas si sono
già realizzate. Si può proprio dire che si è chiusa la stalla
quando i buoi sono già scappati. Consideriamo poi che in certe
province italiane gli impianti a biogas sono stati proibiti perché
sviluppano dei batteri il cui impatto ambientale non è ancora ben
conosciuto.
Una
politica che non tenga conto di questi problemi avrebbe conseguenze
negative per la fertilità del terreno, trasformerebbe il tessuto
della società agricola (con lo sviluppo delle grandi proprietà a
scapito delle aziende di coltivatori diretti) e creerebbe problemi
all'economia del territorio. Se un’azienda agricola familiare
chiuderà la stalla, qualcuno dei suoi componenti sarà costretto a
cercare lavoro in altri settori “rubando” il posto a chi non ha
alternative. L’azienda diretto-coltivatrice è una componente
fondamentale del tessuto sociale ed economico che garantisce una
certa tenuta anche in tempi di crisi come questi. Perciò è bene
salvaguardarla.
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