lunedì 24 dicembre 2012

AMBIENTE E SPECULAZIONI - IMPIANTI A BIOGAS: A QUALE COSTO?

di Alessandro Campigotto
(Riportiamo anche sulle pagine del blog un articolo pubblicato sul nostro foglio, distribuito all'inizio di dicembre)
Gli impianti a biogas funzionano introducendo in un digestore delle masse organiche che, deteriorate dai batteri, producono metano. Il gas viene immesso in un circuito e produce calore ed energia elettrica. Le masse organiche possono essere scarti di prodotti agricoli (letame, liquame...) o colture vegetali come il mais e il sorgo.
Quindi, se un'azienda agricola utilizza materiali provenienti dalla propria normale produzione per rendersi autonoma dal punto di vista energetico, compie una scelta che può ancora risultare sostenibile. Ma il punto è che, in termini di energia elettrica prodotta, la resa del trinciato di mais è circa sette volte quella del letame: quindi, per chi costruisce l'impianto a biogas, ricorrere al mais significa recuperare molto più rapidamente l’investimento iniziale. Tuttavia, per produrre un megawatt di elettricità ci vogliono circa 400 ettari di mais che sono così sottratti all’alimentazione umana e animale.
Così la nobile causa delle energie rinnovabili può nascondere speculazioni sul territorio agricolo da parte di soggetti che nulla hanno a che fare con l’agricoltura. Si dà il caso di società finanziarie che si appoggiano ad agricoltori per costruire impianti a biogas in zona agricola, percependo incentivi (che tutti noi paghiamo in bolletta!) che permettono loro di prendere in affitto terreni (anche marginali) a prezzi raddoppiati se non triplicati rispetto a quelli in uso nelle varie zone, sottraendoli alla coltivazione e all'allevamento. Si tratta di una concorrenza che può ben essere considerata sleale, a cui in particolare non possono reggere gli allevamenti di bovini da latte, che percepiscono un prezzo al litro che si aggira intorno ai 37 centesimi di euro (il prezzo di 20 anni fa!) e che potrebbero essere costretti a chiudere, col pericolo non solo di perdere la possibilità di avere prodotti locali genuini, ma anche di veder scomparire la cultura secolare dell’allevamento.
È vero che il “conto energia” del luglio 2012 ha messo nuovi paletti, riconoscendo incentivi diversi per gli impianti che utilizzano veramente reflui zootecnici e scarti di altra natura, ma ormai è tardi: molte speculazioni sugli impianti a biogas si sono già realizzate. Si può proprio dire che si è chiusa la stalla quando i buoi sono già scappati. Consideriamo poi che in certe province italiane gli impianti a biogas sono stati proibiti perché sviluppano dei batteri il cui impatto ambientale non è ancora ben conosciuto.
Una politica che non tenga conto di questi problemi avrebbe conseguenze negative per la fertilità del terreno, trasformerebbe il tessuto della società agricola (con lo sviluppo delle grandi proprietà a scapito delle aziende di coltivatori diretti) e creerebbe problemi all'economia del territorio. Se un’azienda agricola familiare chiuderà la stalla, qualcuno dei suoi componenti sarà costretto a cercare lavoro in altri settori “rubando” il posto a chi non ha alternative. L’azienda diretto-coltivatrice è una componente fondamentale del tessuto sociale ed economico che garantisce una certa tenuta anche in tempi di crisi come questi. Perciò è bene salvaguardarla.

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